mercoledì 20 aprile 2011

MAMME SENZA PANCIONE



C'è un blog che ho cominciato a seguire di recente. Anzi un "mommy blog".
Ben scritto, esilarante, colorato che mette il buon umore.
Si chiama "Ma che davvero? Dal Pampero ai Pampers e ritorno", e raccoglie le riflessioni miste a disperazione divertita di Chiara Cecilia, mamma giovane ma imprevista, (ne hanno tratto anche un libro: Quello che le mamme non dicono, Rizzoli).
Machedavvero? 27 anni. Mamma. Aiuto.
Mamma imprevista perché, come spiega nel "Chi sono", quella Polpetta tutta ciccia e niente sonno, che la tiene sveglia di notte e le barcolla intorno di giorno, lei non la voleva. O meglio, quando è rimasta incinta "per caso", aveva 27 anni e il suo desiderio di maternità era "ai minimi registrati". "Ma che davvero?" ha esclamato davanti al primo test di gravidanza risultato positivo.
Mamma.
Di solito la prima parola che un bambino pronuncia quando, forse per imitazione, forse per magia, capisce come funziona l'articolazione lingua-palato-labbra.
Meraviglioso, nella sua semplicità.
C'è un detto ebraico che dice: "Dio non poteva essere ovunque. Così ha creato le mamme".
Mamma. E quindi vita, nido, latte, seno, giochi, grembo, abbraccio, dolci, quaderni, scarpe nuove.
Mamma.
Cinque lettere, come amore.
"Stanotte ho saputo che c'eri: una goccia di vita strappata dal nulla. E ora eccomi qui, chiusa a chiave dentro una paura che mi bagna i capelli e i pensieri. Cerca di capire: non è paura degli altri. Io non mi curo degli altri. Non è paura di Dio. Io non credo in Dio. Non è paura del dolore. Io non temo il dolore. È paura di te, del caso che ti ha strappato al nulla. Non sono mai stata pronta ad accoglierti, anche se ti ho molto aspettato. Mi sono sempre posta la domanda atroce: e se nascere non ti piacesse? E se un giorno tu me lo rimproverassi gridando: 'Chi ti ha chiesto di mettermi al mondo? Perché mi ci hai messo? Perché?'".


Oriana Fallaci lo pubblicò nel 1975

Oriana Fallaci scrisse Lettera a un bambino mai nato nel 1975.
Periodo turbolento quello: "famiglia", "amore", "aborto" erano parole sulla bocca di tutti.
Il Codice civile, da parte sua, sanciva che
"i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all'evento della nascita" (Titolo 1, articolo 1),
ma una sentenza della Corte costituzionale di quell'anno stabilì il fondamento inviolabile della tutela del concepito, e la possibilità di ricorrere alla Ivg (tristemente diffusa questa sigla, al posto di "Interruzione volontaria di gravidanza") solo per motivi gravi.
Tre anni dopo, era quasi estate, la polemica s'infiammò con la celebre legge n. 94 del 22 maggio 1978.
Benché "lo Stato tuteli la vita umana dal suo inizio", "l'interruzione è possibile" diceva "quando la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo".
Pericolo per cosa?
A, "per la sua salute fisica o psichica".
B, "in relazione alle sue condizioni economiche, sociali o familiari".
C, "in relazioni alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito".
Fu soprattutto quel punto B a creare scompiglio, perché apriva le possibilità dell'aborto a infinite casistiche. "È concesso l'aborto in troppi casi", tuonavano i detrattori. "Finalmente le donne sono libere di scegliere", replicavano i sostenitori.
E da allora quel dibattito non si è mai spento.
Digito su Google: "aborto".
11 milioni e 500 mila risultati dalla rete.
Una moltitudine di spazi nell'etere che parlano delle mamme senza pancione.
Leggera ma percepibile la pressione che mi chiude la bocca dello stomaco.
In alto, sulla schermata, c'è la definizione: "L'aborto è l'interruzione prematura di gravidanza" (Wikipedia).
Poi ci sono i numeri:
90, come i giorni più a rischio, i primi, dopo il concepimento;
500, come i grammi che deve avere raggiunto il feto per essere considerato "potenzialmente vitale";
25 (più 5 giorni), come le settimane di gestazione che devono essere state superate;
ancora 25, come i centimetri che deve misurare.
Numeri, linee di demarcazione. Di là c'è la vita, la mamma e il suo bambino, di qua qualcosa di troppo indefinito, dita appena abbozzate, masse che assomigliano a fagioli o a girini con gli occhi chiusi e il naso senza narici.
Il termine "aborto" deriva dal verbo latino "aborior", che significa "io perisco".
"Ab-orior", "non nasco". Un'alfa privativa, una vita che non c'è.
L'aborto, leggo, può essere spontaneo,
provocato,
completo,
incompleto,
interno,
inevitabile,
in atto,
embrionale,
fetale,
tardivo.
Posizione "pro-life"
"È omicidio", dicono su quest'altro sito, e intanto un cursore scandisce veloce "i bambini che sono stati uccisi nel mondo per aborto procurato da quando sei su questa pagina".
Esco.
Quella "conta" senza sosta mi mette a disagio.
Posizione "pro-choice"
Scorro l'home page di Google con il cursore.
www.uaar.it è il portale dell'Unione degli atei e degli agnostici.
Legalizzare l'aborto serve, dicono.
Perché "vietarlo non ne impedisce la pratica, anzi la rende clandestina e pericolosa".
Serve perché "la maternità deve essere una scelta responsabile e consapevole, e non il frutto, per esempio, di un contraccettivo malfunzionante".
Serve perché "la vita di una madre ha più valore di quella di un feto".
Valore.
Più valore.
Faccio fatica a capire quale sia la scala di importanza a cui si riferiscono.
Ma forse è un limite mio.
Sono trascorsi più di 30 anni, da quella legge "scandalo" che rivoltò l'Italia.
Da allora sono state tante le proposte di legge avanzate per riaffermare il diritto alla vita degli esseri umani fin dalla fecondazione, e altrettante le polemiche che, nel dicembre 2009, hanno accompagnato la legalizzazione in Italia della pillola RU486 per l'interruzione farmacologica di gravidanza.
"Tu sei a favore o contro l'aborto?".
Lo chiedono a tutti: politici, calciatori, Miss Italia neo elette.
Rimane la domanda più in voga, da infilare nelle interviste dopo i cibi preferiti e i progetti per il futuro.
"Ami la pizza? Cosa vuoi fare in autunno? Sei a favore o contro l'aborto?".
Fa audience.
Perché in effetti rimane un argomento su cui ci si può sbizzarrire, uomini o donne, mamme o single, etero o gay, "pro-life" o "pro-choice".
Dell'aborto bisogna parlare.
E le statistiche?
Quando viene il momento dei bilanci, mano alle calcolatrici, e via con le percentuali: "gli ultimi dati dicono che in Italia si praticano annualmente 9,9 aborti ogni mille donne tra i 15 e i 49 anni"; "RU486, un anno dopo: solo un aborto su venti è farmacologico"; "nel 12% dei casi clinicamente riconosciuti di aborto spontaneo la madre ha meno di 20 anni, e secondo dati Istat, in Italia il numero degli aborti spontanei registrati negli istituti di cura ogni 1.000 nati vivi è cresciuto dagli 89,2 del 1982 ai 128,09 del 2005".
Chissà se chi confeziona questi dati pensa mai a quelle "quasi dieci" donne, tra i 15 e i 49 anni, che, mamme da neanche 180 giorni, "devono" decidere che nel loro grembo non c'è "possibilità di vita".
Chissà se pensano a Roberta, che al colloquio le hanno chiesto se vuole avere figli, perché le donne che vogliono avere figli loro non le assumono.
Chissà se pensano a Elisabetta, che il 19 marzo ha fatto gli auguri al suo papà ma anche al suo amore, il suo Stefano, che è stato papà solo per sette settimane. Poi una "cicogna stronza" ha cambiato i piani.
O a Margherita, che aveva già tre bambini, che dopo Silvia, Alessandro e V. è corsa in ospedale perché quei dolori nel basso ventre non erano solo "calci".
Spasmi che dall'utero colpiscono il cuore.
Una donna se lo sente, quando qualcosa non va.
È il "settimo senso", quello che si trova appena sotto la pelle. Che si accorda con l'istinto alla vita.
È il ritmo di quelle piccole valvole cardiache, invisibili senza microscopio, che si aprono e si chiudono sempre più lentamente.
"Sono successe tante cose in questi giorni: io mi esalto, e t'ammiro a pensarci. La placenta che avvolge il tuo uovo s'è rafforzata, il numero delle tue cellule sanguigne è aumentato, e tutto procede a una velocità pazza. L'impalcatura delle vene è ormai visibile, come anche le due arterie, e la vena del cordone ombelicale che ti porta il mio ossigeno e le sostanze chimiche di cui tu hai bisogno. Hai sviluppata il fegato, e ti sei abbozzato tutti gli organi interni. (...) Ma quello che mi esalta di più sono le tue manine. Ti si vedono ormai le dita. E hai la bocca, un principio di lingua, le cavità per venti dentini, e gli occhi! Così minuscolo, neanche un centimetro e mezzo, neanche tre grammi e hai gli occhi! Se voglio liberarmi di te, sostengono, è questo il momento. Sono pazzi" (Lettera a un bambino mai nato)
Tutti ne parlano...

E c'è davvero da diventare pazzi a farsi certe domande:
"Quando incomincia la vita? Dimmi, ti supplico: è davvero cominciata la tua? Da quanto? Dal momento in cui la stilla di luce che chiamano sperma bucò e scisse la cellula? Dal momento in cui ti sbocciò un cuore e prese a pompar sangue? Dal momento in cui ti fiorì un cervello, un midollo spinale, e ti avviasti ad assumere una forma umana? Oppure quel momento deve ancora venire, e sei solo un motore in fabbricazione?".
Oriana Fallaci scrisse questo libriccino di 101 pagine come risposta a una richiesta che le venne dal settimanale Europeo. «Portami un'inchiesta sull'aborto», le disse il direttore. Quattro mesi di tempo, carta bianca sui contenuti. Oriana "partorì" la Lettera. Lei, un figlio, lo aveva già perso, e infatti più volte mentre leggevo mi sono chiesta se la voce della donna che parla al suo bambino fosse la sua.
Ma chi racconta è una donna senza volto.
Una donna che potrebbe essere moglie, figlia, sorella, amica. Di chiunque di noi.
Senza nome e senza indirizzo.
Una qualsiasi di quelle "9,9" donne che ogni anno devono sottoporsi a metodi più o meno invasivi, ai commenti dei familiari, ai consigli di medici o consultori.
Pro-life VS pro-choice
Ma come si fa a consigliare una donna che si trova in questo momento della sua vita?
Come si fa a consigliarla per l'aborto? E come si fa a consigliarla per il contrario?
Legalmente può essere giusto l'uno, moralmente l'altro.
Ma come si fa a prendersi la responsabilità non di "giudicare", ma anche solo di provare a?
A volte mi capita di pensare a quel "bambino mai nato" che sarebbe stato mio fratello o mia sorella.
Penso che, se fosse andata diversamente (si dice così, no?) probabilmente adesso avrei un adolescente brufoloso che gira per casa, o una quindicenne che fa impazzire mia mamma, sbatte le porte e si trucca gli occhi come un koala.
E penso a che tipo di sorella maggiore sarei stata io, più matura di adesso o più esasperata.
Qualche volta la storia del "fratellino che non è arrivato" riemerge dai ricordi, durante un viaggio in macchina o in una pigra domenica pomeriggio.
Mi trovo a osservare la mia di mamma, con quegli occhi che ancora si illuminano quando vedono un paio di piedini spuntare da una tutina, e quelle braccia, che non si sono dimenticate come si fa a tenere in equilibrio un fagottino di poche settimane, profumato di borotalco.
E glielo chiedo.
Quasi sottovoce, perché ho paura di farle del male.
«Com'è stato?».
Lei mi dice che lo avrebbe voluto tanto, il quarto, ma sai, sono cose che succedono, andava per i 40, sono cose che succedono. Un giorno il mio fratellino c'era, poi le fitte, il sangue, e il giorno dopo non c'era più.
Mia mamma me lo dice, e sorride.
Sorride sempre, quando glielo chiedo. Non so se ne accorga.
Allora provo a immaginare la sensazione positiva che, nonostante tutto, quel quarto "fagiolino" deve averle lasciato dentro. Un'impronta, con le sue piccole dita sformate, una conca lieve con il suo testone rosa e liscio, sul retro di quel pancione a cui il numero 4 non ha portato fortuna. Come un marchio di qualità, il segno che lì c'è stata vita.
E credo che in fondo quel bambino per lei sia un po' nato.
Quando veniamo a sapere di famiglie che, neanche a tanti chilometri di distanza, hanno accolto con gioia un nuovo ospite, pur sapendo che di cromosomi questa creatura ne aveva 21, uno di troppo, mi rivolgo ancora a lei, perché certe cose davvero hanno il potere di anestetizzarmi.
«Tu cosa avresti fatto - le chiedo - L'avresti tenuto?».
«Un bambino con la sindrome di Down?»
«Sì»
«Non lo so» mi risponde, scuotendo la testa e abbassando gli occhi.
Ricordo tutte le volte che mi ha raccontato di quando, finite le scuole superiori, lavorò per tre anni in un istituto per bambini e ragazzi disabili.
All'inizio penso che non ha senso, che una persona come lei, che quella realtà l'ha toccata da vicino e che ha sentito il suo bambino smettere di muoversi, una persona così non può dirmi: "Non lo so".
Dovrebbe essere a favore della vita. Sempre e comunque.
Anche se è fatica, anche se non pagheresti due soldi per ritornarci un'altra volta, su questo pianeta.
Ma poi capisco.
Capisco che quel movimento di testa non vuol dire: "Non lo avrei tenuto".
Che quegli occhi abbassati non sono un gesto di resa a un dolore troppo grande.
Ma solo che quel dolore è inimmaginabile.
Che non puoi avere la presunzione o la sicurezza di pensare: "Io al suo posto avrei fatto la scelta giusta" o "Avrei fatto così".
Le scelte sono tali perché libere.
Ma dov'è la libertà in un dilemma di questo tipo?
Guardo mia mamma, mentre mi dice "Non lo so", e capisco che vorrebbe aggiungere: "Mi sarei dovuta trovare in quella situazione".
Mi sarei dovuta trovare lì, con la mia pancia gonfia di vita,
in quell'ospedale,
davanti a quel medico che mi dice che il mio bambino nascerà con la sindrome di Down,
che se voglio ho tempo fino alla venticinquesima settimana per dire "sì" o "no" a quel grumo di cellule che mi sta crescendo dentro.
Solo allora potrò dire: "Sono contro o a favore dell'aborto".
Non prima.
Non da uomo.
Non da donna senza pancione.
Non da medico, obiettore o no.
In fondo che cos'è il brivido di un salto nel vuoto con un elastico se non ti trovi sul bordo di un ponte o di burrone?
Lo potrai mai descrivere quel brivido, se non lo provi?
Se non ti trovi lì, con il vento che ti fa oscillare e la paura che ti fa girare la testa, come puoi dire "è giusto saltare" o invece "è un errore"?
Finché non ti troverai a dover scegliere, "Salto oppure no?", a che servono le parole?
Sono vuote.
Proprio come quelle mamme senza pancione.
Che forse, penso, non avrebbero diritto (sì, diritto) queste mamme "a metà" di una tutela maggiore?
"Indovina un po'...sono incinta"
Di leggi che appoggino e facilitino, magari, la procedura dell'adozione?
Non ci sarebbero, forse, molti meno "bambini mai nati" se le mamme che non possono tenerli sapessero di poter fare affidamento poi su una famiglia sicura?
Come quella coppia di genitori che la protagonista di Juno trova tra gli annunci sul giornale. "Cercasi prole disperatamente".
"Nell'immaginario collettivo quello della mamma è una specie di mito. - racconta l'autrice del blog "Ma che davvero? in un'intervista su Settegiorni - E invece la realtà è molto diversa: il "lato oscuro" della maternità è ancora un grande tabù, e parlarne, ammettere che esiste aiuterebbe molte donne a sentirsi meno sbagliate. Non ci si trasforma in mamma dalla mattina alla sera, è umano avere dubbi, fare errori e sì, anche rimpiangere certi momenti della vita pre-pupo".
Quante mamme non possono tenere il proprio bambino, e quante non ne possono avere? Perché allora non farle dialogare, senza che la paura e la solitudine conducano a decisioni drastiche?
Si parla, si parla tanto di aborto, e maternità, e famiglia.
Ma quanto si sta facendo?
Se ne avete di esempi "buoni", di progetti "virtuosi" che sostengono queste donne, raccontatecelo. Ne parleremo qui, e forse alle polemiche sterili, ai giudizi univoci e "ingiudicabili" sostituiremo la sensibilità, e soluzioni concrete che non sono mai abbastanza, di cui non si parla mai abbastanza.
C'è qualcosa di straordinario nella vita, e di inspiegabile nel suo contrario.
Mamma. Cinque lettere, come amore.
Perché "l'amore", come dice Oriana Fallaci, non è altro che "ciò che una donna sente per suo figlio quando lo prende tra le braccia. E se toccasse a te, bambino mio, farmi scoprire il significato di quelle cinque lettere assurde? Proprio a te che mi rubi a me stessa, e mi succhi il sangue e mi respiri il respiro?".
Quante donne si sono fatte questa domanda?
Quante non hanno avuto il coraggio di rispondere?
È a loro che si dovrebbe chiedere il permesso di parlare oppure no.
L'ho fatto in questo post su proposta di A., con il cuore un po' pesante, ma desiderosa di dire, per una volta, la mia sull'argomento (che a molti, forse, apparirà come una non-opinione, ma va bene così).
E adesso basta.
La smetto anch'io.
Un abbraccio, mamme senza pancione.
Un abbraccio a tutte voi.

V.



2 commenti:

  1. aborto\gravidanza
    morte\vita
    cara V. stavo per scrivere il mio pensiero ma mi sono accorto che avrebbe avuto bisogno di uno spazio notevole e che avrebbe potuto far nascere una discussione che credo non sia appropriata né al blog né all'articolo. Il tema che hai riportato è molto forte per l'emotività personale, e, come hai detto, in internet si trovano già forum e siti di discussione.
    Riassumo e sintetizzo la mia riflessione: nessuno può dire che è giusto o sbagliato l'aborto clinico, ma sono a favore del fatto che spetta alla donna in gravidanza poter scegliere secondo la sua sensibilità cosa ritiene meglio per sé e per la Vita che porta, e che non bisogna lasciarla a sé stessa in nessuna della due occasioni, che richiedono una grande responsabilità in entrambe le direzioni.
    Quindi sono a favore che una donna abbia il diritto di avere un accompagnamento anche clinico-medico adeguato in caso decida per un aborto forzato.
    Spero avremo l'occasione di parlarne profondamente.
    :*

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  2. Caro Sir Dave,
    hai colto esattamente il messaggio che almeno io, ma credo anche A., volevamo dare: l'impossibilità di disquisire su un argomento così intimo e delicato per una donna.
    Libertà significa poter fare una scelta ma anche non farla, soprattutto quando si tratta della vita di una mamma e del suo bambino.
    Con questi post abbiamo voluto mandare un pensiero d'affetto a queste mamme in difficoltà.
    Magari è arrivato a destinazione.
    Buona notte...

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