FIL(M) ROUGE



1980s in love
Tre film, un'unica decade, un unico tema

Ufficiale e gentiluomo (1982)
Voto: 6 e mezzo
Mai visto, scelto perché "tra i classici" e per la notizia di un Richard Gere nel fiore degli anni e "come mamma l'ha fatto". Ma la protagonista al femminile non emerge, loro si innamorano troppo in fretta, la fine è un "happy end" troppo scontato e senza un seguito nella testa di chi guarda (niente a che vedere con quello principesco di Pretty woman, qui niente "e vissero felici e contenti", dove, come continua?). Famose le scene di duro addestramento militare all'americana: Louis Gossett Jr ha vinto un meritato Golden Globe per il ruolo di severo e sadico (poi non così tanto) sergente Foley.
Per il resto: bah.





Sergente Foley: «Da dove vieni soldato?!»
Cadetto: «Da Oklahoma City, Oklahoma, signore»!
Sergente Foley: «Due cose sole vengono dall'Oklahoma: tori e checche! Io non vedo le corna, quindi devi essere una checca!»

Pretty woman (1990)
Voto: 8 e mezzo
Eh sì, Pretty woman resta Pretty woman. Le critiche di banalità e sentimentalismo sono abbastanza inutili: Pretty woman è una delle favole più belle del ventesimo secolo, dopo Cenerentola. Sì, lei è una prostituta, sì, lui è ricco, dannatamente ricco, ma... c'è Julia Roberts, fresca, sorridente, riccia come la si vedrà raramente; c'è Richard Gere, molto più maturo e apprezzabile che in Ufficiale e gentiluomo; c'è un albergo con letti, vasche da bagno e corridoi dorati e immensi, c'è la dolcezza di un bacio dato a fior di labbra, c'è quella scena sul pianoforte che è l'emblema dell'erotismo su celluloide... che dire? C'è solo da riguardarselo ogni tanto armate di fazzoletti e vaschette di gelato al cioccolato.

Vivian: «Dimmi solo un nome di una a cui è andata bene...»
Kit: «Quella gran culo di Cenerentola!»


La mia Africa (1985)
Voto: 8
Se bastasse un film  a provocare il "mal d'Africa", credo sarebbe questo. La sceneggiatura è un po' antiquata, e anche Meryl Streep non brilla per trucco e parrucco, ma le vedute delle praterie e dei villaggi del Kenya, la terra scavata dal sole, come la pelle degli uomini e delle donne che la abitano, gli spazi del cielo colti con inquadrature panoramiche straordinarie per l'epoca... davvero sembra di "guardare il mondo con gli occhi di Dio". Molto forte l'alchimia tra la Streep (nel film baronessa danese alla ricerca di un posto da chiamare "casa") e Robert Redford, più biondo e più bello che mai, nel ruolo di Denys Finch Hatton, organizzatore di safari e amante di Mozart e della libertà. 7 premi Oscar, 3 Golden Globen e altrettanti premi Bafta per questa pellicola autobiografica d'altro sapore da riguardare periodicamente per chi ama le storie d'amore un po' tristi ma intense.

Karen: "Dimmi qualcosa, e io ti crederò"

V.


Venghino, signori, venghino!
Una storia d'amore e gelosia all'ombra del tendone del Benzini Circus.
Personaggi (e animali) in cerca di riscatto nell'America della Grande depressione

Quando una mattina qualsiasi, mentre stai facendo un esame all'università, la vita, la tua, prende una piega imprevista e dolorosa, non resta che impacchettare i sogni infranti in una valigia e prendere il primo treno. Jacob Jankowsky era uno studente di veterinaria vicino alla laurea e pieno di progetti; ora è solo un vagabondo, uno dei tanti che brulicano sopra le terre d'America durante la Grande depressione. Il treno, simbolo della fuga, è quello del Benzini Brothers Circus, ed è tra le gabbie colorate, tra giocolieri e spogliarelliste, bicchieri di champagne e di whisky che Jacob troverà una nuova possibilità di vita.

Belle le ambientazioni: guanti bianchi, paiellettes e piume, acrobati, donne cannone, musiche che sembrano uscire da carillon invisibili. Una "stravagante stravaganza" che sa di passato, come in una fotografia color seppia.
Veri protagonisti gli animali, prima fra tutti Rosie, spassosissima elefantessa che esegue gli ordini in russo e beve whisky. La sofferenza delle bestie rinchiuse nelle gabbie è palpabile, sembra di sentire la puzza del fieno e gli ansimi tra le sbarre; l'affetto che Jacob dimostra per loro è toccante.
E gli umani? Un po' deludenti, ma non per colpa loro: Robert Pattinson (Jacob) è bravo ma poco coinvolto, conserva la freddezza del vampiro adolescente interpretato nella sala di Twilight. Dovrebbe lottare per la sopravvivenza, in quel circo dove chi viene licenziato viene anche buttato giù dal treno in corsa, ma in lui questa "lotta per un pezzo di pane" non sembra emergere. Ci vuole ancora un po' d'esperienza. Lo terrò d'occhio: sono convinta che possa fare di più.
Reese Whiterspoon (è Marlena, moglie del geloso direttore del circo, di cui Jacob inevitabilmente si innamora) è brava, come sempre, elegantissima anche sul dorso di un elefante, graziosa ma con la sensualità di una burlesquer degli anni Venti.
Si percepisce la differenza d'età tra i due (classe 1976 lei, 1986 lui), perciò forse al fianco di Reese avrei visto un attore più maturo (anche se nella storia è uno studente).
Christopher Waltz ("re" e padrone del Benzini Circus) è nevrotico e sadico al punto giusto, eppure non dà voce alla stessa cattiveria che gli è valsa l'Oscar in Bastardi senza gloria, anche se il ruolo l'avrebbe richiesto.
Anche l'espediente narrativo (un flashback di Jacob ormai anziano che ricorda la storia del Benzini e di Marlena) è debole, molto tenero nella parte finale del racconto, ma debole.
Ha qualcosa che piace questo film, ma non fino in fondo. La storia c'è, ma è come se non fosse stata sviluppata come meritava. Chissà se quello che manca è dentro a Acqua per elefanti, il libro di Sara Gruen da cui è tratto. Che la trasposizione cinematografica abbia perso sapore?
Merita comunque un 7, perché coinvolge e commuove.
E poi chi è che da bambino non ha mai desiderato almeno una volta di scappare con il circo?
V.

Charlie: "Finirà nel libro dei record come l'uomo più vecchio che sia mai scappato con il circo"
Jacob: "Ma io non sto scappando... torno a casa, semmai"

Titolo: Come l'acqua per gli elefanti
Titolo originale: Water for elephants
Regia: Francis Lawrence
Anno: 2011
Paese: Usa
Genere: romantico, drammatico
Voto: 7
Lo consiglieresti?
Perché? Perché Robert Pattinson non è solo Edward Cullen, perché c'è la magia del circo, perché non ci si commuove mai abbastanza. E poi un'elefantessa che beve whisky...!





Cosa ne pensa una nostra lettrice:

Perché vedere Robert Pattinson solo come Edward Cullen di Twilight?
Veste bene anche i panni di Jacob Jankowski alla ricerca di un
riscatto dalla vita, nell'America della Grande Depressione. Non avere
nulla da perdere ti permette di vivere appieno le occasioni che la
vita ti porge davanti. Come il treno di circensi dei Fratelli Benzini
in cerca di fortuna! Se oltre alla passione per gli animali, in
particolare per l'elefantessa Rosie, scatta la scintilla con la moglie
del capo allora il melodramma si arricchisce di violenza e, perchè no,
di suspense...

Beatrice


I "grandi" di Hollywood non vogliono invecchiare
Erano agenti della Cia, adesso sono ricercati. Devono scoprire perché.

Per chi non lo conosce Frank Moses (Bruce Willis) potrebbe essere un pensionato come tanti.

Vive solo, senza troppi strapazzi, unico passatempo le telefonate a intervalli regolari inoltrate all'Ufficio pensioni con richieste fittizie, che gli permettono di chiacchierare con Sarah, operatrice brillante e stanca del proprio lavoro, e di condividere con lei sfoghi e sogni. Pur non essendosi mai conosciuti di persona.
Poi una sera in casa di Frank si introduce una squadra armata con i passamontagna e i mitra che fanno brillare i vetri e mandano in frantumi le pareti. E allora si scopre che Frank (nome comune, per uno come lui) non è un "pensionato come tanti", ma invece "uno degli agenti più sotto copertura che la Cia abbia mai avuto", uno che "ha fatto saltare signori della droga, terroristi, governi", e che, raggiunta la soglia d'età, è stato etichettato come "R.E.D.", "Retired and extremely dangerous", "in pensione ed estremamente pericoloso".
E adesso qualcuno lo vuole morto. Inizia così un viaggio per scoprire i mandanti e per riunire i vecchi compagni d'avventura.
M. Freeman








J. Malcovich

B. Cox
H. Miller
R. Dreyfuss




















Una storia d'azione e di sparatorie come siamo abituati a vederne dagli americani, questa volta però condita da un cast rimarchevole ("Non sono mai stato in una pellicola con così tante celebrità" ha dichiarato Willis): è bello rivedere Morgan Freeman, ex agente pure lui, ora in una casa di ricovero curato per un cancro e gran conquistatore di infermiere; John Malcovich, militare sociopatico ritiratosi dalle scene che si nasconde sotto terra e vede il complotto ovunque; Brian Cox (Brave heart, The bourn identity, Match point) anziano sicario della Federazione russa; Helen Mirren (Oscar per l'interpretazione della regina Elisabetta in The queen), maneggiatrice di pistole che non si arrende al decoupage e al giardinaggio; e infine Richard Dreyfuss (Lo squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo), amministratore delegato sotto protezione del Fbi che nasconde un segreto.

Piacevolissima anche la controparte femminile di Willis, Mary Louis Parker: la donna che interpreta, Sarah, costretta a seguire Frank perché anche lei in pericolo di vita (le loro telefonate sono state intercettate), non ha il fascino di Olga Kurylenko o Halle Berry, famose e più avvenenti "bond girls", ma interpreta un personaggio comunque intelligente e discreto, che fa divertire. A differenza delle "bond girls" non si lascia subito sedurre, è moderna e indipendente, e dotata di una forte autoironia.

Ed è proprio questa ironia che permette al regista, Robert Schwentke, di ammiccare ai film della serie 007 per creare una pellicola che di quel genere conserva i cliché (l'agente segreto, la ragazza che lo segue in missione, i "cattivi", gli scontri a fuoco rocamboleschi) e tuttavia li guarda senza troppa serietà, mescolando l'azione alla commedia. Uno degli ultimi film a riuscire in questo intento è stato Innocenti bugie, con Tom Cruise e Cameron Diaz, ma in Red il cast aggiunge sicuramente qualità. E allora non sono più dettagli trascurabili il fatto che Willis coltivi avocado e non abbia mai avuto una storia seria, che Malcovich nasconda il mitra nell'imbottitura di un maiale di peluche, o che Freeman guardi il sedere delle infermiere: agenti (e attori) vengono delineati caratterialmente nei loro lati più umani e ridicoli, e presentati al pubblico come eroi improvvisati, che devono ributtarsi nella mischia un po' con il brivido delle avventure passate, un po' contro voglia.
Insomma, "licenza di uccidere" sì, ma se si potesse farne a meno, sarebbe più semplice per tutti. I "grandi" di Hollywood tornano per darci conferma che il loro talento non ha data di scadenza. Sono espressivi, professionalmente maturi, cinematograficamente superbi. E per dimostrarlo scelgono la via del gioco, del romanticismo e della leggerezza. Come dire che a invecchiare bisogna essere capaci, che si può anche tornare bambini, e fare un film senza troppa filosofia e una buona dose di godibili "scazzottate", se occorre, ma ci vuole "stile". Ci vuole il marchio di Hollywood, dell'Oscar, in alcuni casi.
K. Urban
Non importa se sulle linee nemiche sono schierati sofisticate tecnologie e aitanti agenti in doppio petto (buona anche l'interpretazione di Karl Urban, sicario inarrestabile che vuole uccidere Frank e quanti a lui collegati). Non importa, perché ad aiutare ci sono la conoscenza dei trucchi del mestiere, bombe costruite artigianalmente alla Mac Gyver, archivi ricoperti di polveri ma pieni di segreti preziosi, l'esperienza sul campo e un'amicizia fatta di "amori e dissapori", ma che li avvicina nel pericolo.

Non me ne voglia Bond, James Bond, ma questi agenti con le rughe piacciono. Eccome se piacciono.
V.


Titolo: Red
Titolo originale: Red
Regia: Robert Schwentke
Anno: 2010
Durata: 111 minuti
Paese: Usa, Canada
Genere: azione, commedia
Voto: 9
Lo consiglieresti? Sì
Perché? Ai ragazzi, che amano i film alla James Bond, alle ragazze, che li vogliano accontentare senza soffrire troppo (non amo il genere di solito)





Gloria a Quentin e ai suoi "Bastardi"
Un gruppo di vendicatori, una ragazza ebrea, un regista: insieme vogliono cambiare la Storia

Irriverente Quentin, cosa mi ero persa due anni fa.
Solo tu potevi prendere la macchina da presa e rendere il tema della guerra e dello sterminio degli ebrei qualcosa di mai visto.

Basterebbe l'entrata in scena di Hans Landa (Christoph Waltz), temibile colonnello delle SS, fine oratore, feroce "cacciatore" di "nemici dello Stato". L'uccisione di un'intera famiglia, da cui riesce a salvarsi solo la giovane e bionda giudea Shosanna Dreyfus (Mélanie Laurent), resta negli occhi per quella crudeltà inferta con il sorriso.
Nazisti crudeli, ebrei nascosti sotto le assi di un pavimento... niente di nuovo, direte.
E invece no.
E invece è arrivato l'Oscar per Waltz. Basterebbe solo quella scena.
E invece Quentin mescola musica classica (inconfondibile Per Elisa) a dialoghi superbi e musiche che ammiccano ai western di Sergio Leone.
E invece Quentin, dopo Le iene, Pulp Fiction e Kill Bill, non solo dà voce al suo piacere più autentico di raccontare storie, ma reinventa la Storia, facendo convergere due piani di vendetta, quello di Shosanna e quello dei "Basterds", nella sala di piccola cinema, l'unico luogo dove la Storia può essere cambiata, dove i buoni possono vincere sui cattivi, se il regista lo decide.
Per i "Basterds" (titolo storpiato dall'Inglorious Bastards di Enzo Castellari) la guerra non sembra niente di più di un gioco a premi ("Voglio dieci scalpi di nazisti da ognuno di voi" tuona Brad Pitt all'inizio. Ricorda molto Marlon Brando nei panni di Aldo Reine, "bastardo" capo con sangue apache nelle vene). Un gioco a premi, appunto, dove alla giusta causa (uccidere nazisti che uccidono ebrei) si aggiungono riti sadici di affronto al Reich  (scalpi strappati senza esitazione, svastiche incise sulla pelle con un coltello).
Solo Tarantino poteva trasformare una tragedia in satira, rendendo temibile un guerrigliero, l'Orso ebreo, che uccide i nemici fracassando loro la testa con una mazza da baseball, e permeando i blitz dei "Bastardi" di uno spirito di pura presa in giro verso i tedeschi, simboleggiata anche da un fuhrer grottesco che sembra una marionetta, che sputacchia quando parla, con il mantello da principe Filippo e il mento pronunciato.
C'è il sangue, c'è l'odio, c'è un multilinguismo molto raffinato (gli attori parlano inglese, francese, tedesco, italiano e siciliano. Un film da gustarsi in lingua originale).
Quentin, avresti potuto fermarti qui.
E invece no.
E invece ci hai fatto godere di fronte a un attentato di cui tutti avremmo voluto essere testimoni.
E invece ci hai fatto sognare, e per 153 minuti hai cambiato il corso della Storia.
"153 minuti di pura eiaculazione" hanno detto.
Avresti potuto accontentarti.
E invece no.
Invece ci hai messo il Genio.
V.


Titolo: Bastardi senza gloria
Titolo originale: Inglorious Basterds
Regia: Quentin Tarantino
Anno: 2009
Durata: 153 minuti
Paese: Usa, Germania
Genere: storico, d'azione
Voto: 9
Lo consiglieresti?
Perché? Perché è il "buon" cinema, perché si assiste alla mano di una grande regista all'opera, perché il cast merita, perché la storia merita.








Fabulosa Penélope


Tre pellicole, per raccontare la "musa" di Pedro Almodòvar


Dopo averla vista e apprezzata nella sua splendida forma da "quasi mamma" in Oltre i confini del mare, quarto episodio de I pirati dei caraibi, ho avuto fare un piccolo viaggio nella filmografia di Penélope Cruz.
Solo qualche nota: nasce il 28 aprile 1974; la sorella Monica, a lei somigliantissima, è stata una dei protagonisti della serie televisiva Paso adelante, e ha fatto da controfigura a Penélope in alcune scene de I pirati dei caraibi quando la gravidanza le impediva i duelli e i movimenti più rischiosi. Incontra Pedro Almodòvar nel 1997, e da allora è un' escalation di ruoli e presenze in pellicole celebri, che la vedono a fianco degli attori hollywoodiani più affascinanti: citiamo solo Johnny Depp, per Blow e Tom Crouise per Vanilla Sky.

Vicky Cristina Barcellona (2008)
Voto: 7 e mezzo
Le Vicky e Cristina del titolo sono due turiste americane che passeranno l'estate a Barcellona. Quando incontrano Juan Antonio, pittore spagnolo che ha appena divorziato da Maria Elena, moglie bellissima e violenta, finiranno per lasciarsi sedurre dall'atmosfera calda e luminosa della città e per complicarsi la vita con triangoli amorosi che mai avrebbero immaginato. Non sono una grande fan di Woody Allen, ma qui mi è piaciuto. Belle le ambientazioni, bellissima lei, Penélope, nevrotica, intensa, nel ruolo della moglie dal delicato equilibrio artistico e psicologico, ruolo che l'ha consacrata all'Oscar come migliore attrice non protagonista. Altrettanto affascinante lui, Javier Bardem (attore di Non è un paese per vecchi e Mangia, prega, ama), "chico" spagnolo per eccellenza, bruno, ammaliatore e ottimo protagonista sulla scena. Sono loro, e non Vicky (Rebecca Hall) né Cristina (la "musa" di Allen, Scarlett Johansson), a riempire l'obiettivo della cinepresa. Un film da guardare solo per la complicità (si sposeranno nel 2010) e la professionalità da loro dimostrata. E poi quell'accento spagnolito... muy caliente!

Juan Antonio: "Sono Juan Antonio. Vorrei invitarvi tutte e due a venire con me a Oviedo. 
Mangiamo bene, beviamo e facciamo l'amore"


Non ti muovere (2004)
Tratto dall'omonimo romanzo di Margaret Mazzantini
Voto: 6 e mezzo
Passare dalla luce liquida e gialla di Barcellona ai palazzoni grigi e umidi di un'anonima città italiana è stato un duro colpo. E lo è stato vedere anche Penélope abbruttita dal trucco pesante e dai capelli sporchi. In questa pellicola diretta da Sergio Castellito, la Cruz è Italia, ragazza povera, donna delle pulizie in un albergo che vive in periferia tra sporcizia e abbandono. La incontra Timoteo, chirurgo affermato, agiato "borghese", in crisi con la moglie (Claudia Gerini). Si incontrano, e a poco a poco nasce un sentimento contrastato e violento, tenero e implacabile, che li avvicinerà tanto da farli innamorare. E quando Angela, la figlia di Timoteo, avrà un incidente in motorino che la porta in fin di vita, Timoteo troverà il coraggio di ripercorrere quell'amore adultero e puro, e di ricordare le proprie colpe. Il marchio del cinema italiano si vede: personaggi frustrati e alla continua ricerca di un'evasione che non li soddisfa, mogli che sanno ma non parlano, degrado, abusi sessuali, isterismi. Tutto portato un po' troppo all'eccesso, ma Penélope Cruz dimostra ancora una volta una bravura incredibile (le viene assegnato il David di Donatello), recitando per tutto il film in italiano e diventando una perfetta compagna di scena per un Sergio Castellito maturo e talentuoso. Qualcuno l'ha definita "la moderna Anna Magnani". Credo abbia ragione.

Timoteo: "Tu non mi perdonerai mai, vero?"
Italia: "Dio non ci perdonerà"
Timoteo: "Dio non esiste, amore mio
Italia: "Speriamo"


Volver (2006)
Voto: 9
Penélope Cruz ricorda proprio la Magnani in questo film di Pedro Almodòvar. È una storia di donne, donne forti, donne sole, che mettono in ombra gli attori-uomini (pochi) che le affiancano. Sullo sfondo la ventosa Madrid, dove vivono Raimunda (la Cruz) con il marito e la figlia quattordicenne, Paula, e Sole, sorella di Raimunda. Altro scenario un piccolo paese della provincia, dove rimangono la vecchia zia delle due sorelle, un'amica, Augustina, e spiriti di storie e ombre lontane che sembrano tornare ("volvèr" in spagnolo) per fare memoria di violenze accadute all'interno della loro famiglia. Quando cominciano a girare voci che la madre di Raimunda e Sole, defunta in un misterioso incendio, è stata vista ancora viva, le due donne dovranno fare i conti con il passato con tutta la forza di cui sono capaci. È una storia di tre generazioni di donne, impulsive e allegre, piene di colore, donne che si vogliono bene, donne di oggi e di ieri, donne con i tacchi e le mani rovinate, con i capelli al vento e la lingua veloce, pronte a difendere gli affetti e le proprie convinzioni. Sono le donne dei film di Luchino Visconti e di Vittorio De Sica, quelle donne italiane degli anni Cinquanta capaci di lottare come tigri e alzare la voce. Quelle donne, in questo film di Almodovar, premiate al Festival di Cannes per "la migliore interpretazione femminile". Una piacevole sorpresa. Bravo Pedro.

Irene: "Non dire così, che mi metto a piangere… e i fantasmi non piangono"


V.


"Ma lo studio... perché?"


Brillante studentessa nella Londra del secondo dopoguerra, Jenny si interroga sul significato della sua istruzione. Da una parte c'è Oxford, dall'altra Parigi e una vita "tres chic"

È il 1961, e la periferia di Londra, a Twinckenham, è animata da ragazzi in divisa e da ragazze in gonna e calzettoni che sognano l'università, camminano con un libro sopra la testa e imparano a cucinare, a ballare il valzer, a giocare a polo.

Jenny Miller (interpretata da una piacevolissima Carey Mulligan) ha 16 anni e una coppia di genitori fin troppo presenti ed esigenti. Suona il violoncello, studia molto, aspira a Oxford e a una vita senza vincoli, fatta di libri, musica francese, sigarette, mostre d'arte e "persone che sanno tutto di tutto".
Un pomeriggio, di ritorno dalle prove dell'orchestra, un temporale la coglie sulla via di casa e a offrirle un passaggio è un gentile e simpatico ragazzo ebreo in una macchina "tres chic".
Sarà proprio David Goldman, con i suoi 30 anni e la sua "bella vita", a permetterle l'ingresso in un modo di lustrini e serate eleganti, fuori dal quartiere grigio e borghese dove è nata, tra pellicce e donne bellissime. Le farà scoprire l'amore, il primo, quello più totalizzante. Le farà scoprire Parigi e i bistrot. La farà crescere. Ma che "è troppo bello per essere vero", che "non è tutto oro quello che luccica" (sebbene il cognome di David lo dica) Jenny se ne accorgerà presto...
Esordio di Nick Hornby alla sceneggiatura, non è un capolavoro ma si guarda volentieri per alcuni accorgimenti: Hornby (autore del romanzo About a boy) ricostruisce con sufficiente realismo l'Inghilterra del dopoguerra, quella che avverte la presenza lontana del nemico russo, quella che "vai al college e trova un buon marito", quella dei sobborghi, del cielo eternamente plumbeo, dei sogni da far maturare con garbo. Di sua ispirazione anche il filone adolescenziale, il tema della crescita, del passaggio dalla fanciullezza all'età adulta.
Alcune mise del film anni '50
Azzeccatissima la scelta della protagonista, già vista, ma di sfuggita, in alcuni film come Public enemies o Brothers (a fianco di attori come Keira Knightley,  Natalie Portman, Susan Sarandon...), e nel 2005 in Orgoglio e pregiudizio nel ruolo di una delle sorelle Bennet (da Orgoglio arriva anche Rosamund Pike, al tempo timida Jane, qui una spigliata e affascinante ragazza dell'alta società). Carey è ora tutta da rivalutare per maturità, preparazione e interpretazione. "Da tenere d'occhio", come hanno scritto in molti, anche alla luce degli innumerevoli premi da lei ricevuti (premio Ioma 2010 e Bafta 2010 come miglior attrice protagonista; National board of review awards 2009, British independent film awards come miglior attrice).
Un po' deludenti i personaggi maschili: David non ha quel fascino che ci si aspetterebbe e che dovrebbe far innamorare Jenny. Insomma, Peter Sarsgaard non è Johnny Depp, ma tant'è, la giovane Carey occupa il palcoscenico delle celebrità anche per lui.
Dominic Cooper è l'amico di David e suo compagno d'affari e di scorribande. Ha recitato in La vera storia di Jack lo Squartatore, Mamma mia!, La duchessa. Qui la sua performance non è degna di nota. All'inizio era stato scelto Johnny Depp (che però non mi sarei vista molto bene nel contesto. Quindi meglio).
Rivedo invece con piacere Alfred Molina, padre severo di Jenny e attore espressivo e poliedrico. Ha interpretato il ruolo del parroco francese avverso alle novità nella bellissima pellicola Chocolat, e quello di un pittore messicano e comunista in Frida.
A chiudere il cast sono Olivia Williams, nei panni di Miss Stubbs, insegnante di Jenny e sua sostenitrice, versione femminile del John Keating ne L'attimo fuggente, e un po' ingrassata ma sempre bellissima Emma Thompson che questa volta fa la parte della "cattiva", e impersona la preside della scuola dalle visioni ristrette e poco appassionata all'insegnamento.
Proprio sull'educazione sono state partorite alcune riflessioni interessanti, come quella in questo video (pregevole l'interpretazione della Mulligan):
La Mulligan in Orgoglio (a sinistra)
Tratto dalle memorie autobiografiche di Lynn Barber (che in un racconto riporta la sua storia d'amore con un ragazzo più vecchio), An education non è una perla cinematografica, ma comunque un film piacevole, terreno di conferma per alcuni attori "storici" e di debutto per una venticinquenne che mi curerò di seguire. Sì, proprio il cast (quasi interamente britannico) credo sia l'ingrediente segreto del film. 3 le nomination agli Oscar (miglior film, miglior sceneggiatura non originale e miglior attrice per la Mulligan).
V.



Titolo: An education
Titolo originale: An education
Regia: Lone Scherfig
Anno: 2009
Durata: 95 minuti
Paese: Regno Unito
Genere: drammatico, romantico
Voto: 7

Lo consiglieresti? 
A chi? A chi ama le ambientazioni anni '50, a chi vuole scoprire un nuovo talento hollywoodiano, e si interroga sull'utilità dell'educazione sui banchi


P.S.
Per i più dissacratori in tema di educazione, un momento "amarcord":
P.P.S.
Carey Mulligan era tra le candidate per il ruolo di Lisbeth Salander nel remake hollywoodiano di Uomini che odiano le donne, diretto da David Fincher, nelle sale il prossimo dicembre (la parte è andata a Rooney Mara, che reciterà al fianco di... Brad Pitt, a quanto pare nei panni di Michael Blomkvist!).

P.P.P.S.
Si parla di lei come "la nuova Audrey Hepburn". Infatti pare sia stata scelta per il ruolo di Eliza Doolittle nel remake del musical My fair lady! Cuoricini! Tanti cuoricini!


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L'importanza di chiamarsi Khan (e di non essere un terrorista)

Dopo l'11 settembre, un uomo attraversa l'America per giustizia (e per amore)

Una recensione veloce. Un'altra. Anche la domenica mattina. Perché questo film la merita. Meriterebbe di più.
Il mio nome è Khan è la storia di un uomo, Rizvan Khan, che, dopo l'attentato alle Twin Towers, si trova in una posizione pericolosa: indiano, mussulmano, vive a San Francisco dove è emigrato da Mumbai dopo la morte della madre e dove, nonostante la sindrome di Asperger di cui soffre fin da bambino, ha sposato la bellissima Mandira, induista e madre di Samir.
Rizvan è un uomo buono, ha paura dei rumori forti, del giallo, e il suo sguardo vaga in continuazione. La leggera forma di autismo con cui convive non gli impedisce di essere più intelligente della norma, un buon "artigiano", e di saper "riparare praticamente qualsiasi cosa". Non è in grado di piangere, non riesce a manifestare i suoi sentimenti come comunemente ci si aspetta, ma l'ingenuità, l'onestà e la sua "naturalezza" lasciano spiazzati.
In questo film ci sono i colori dell'India, le musiche, le usanze di quel popolo povero ma sorridente. Ci sono le preghiere mormorate dell'Islam, i tappeti, la fede in Allah, i copricapi di Maometto. Sullo sfondo un'America che è crollata assieme alle Torri, l'odio che si insinua tra bianchi e neri, cristiani e "altri". Parole come "Al Quaida" o "Jihad" che diventano il pretesto per scatenare una guerra civile senza eserciti, fatta di discriminazione, porte chiuse e divisioni religiose.
Quando una tragedia, la più grande, colpirà la famiglia felice di Rizvan e Mandira, lui deciderà di dimostrare a tutti gli Stati Uniti che lui no, non è un terrorista. Che non ci differenze tra induisti, mussulmani e protestanti, che le persone si dividono in due categorie, quelle buone, che fanno cose buone, e quelle cattive, che fanno cose cattive. "La mia mamma me lo ha insegnato". 
E per dimostrare a tutti che lui, anche se mussulmano, non è una persona cattiva, intraprende un viaggio. Moderno Forrest Gump, zaino in spalla, attraversa l'America per andare a portare il suo messaggio a chi gli americani li rappresenta dall'alto...
Non ho mai seguito molto il cinema indiano, ma questa volta Bollywood non mi ha deluso. Commuovente, a tratti stereotipato, un po' lungo ma costruito su una trama solida, Il mio nome è Khan è un composto di emozione e dolore, realtà (quella della guerra, le elezioni presidenziali, gli uragani) e immaginazione, colta attraverso gli occhi di Rizvan, i palloncini, le sue canzoni, e la telecamera con la quale osserva il mondo per non averne paura.
I personaggi, bianchi, neri, indiani, ricchi e poveri, hanno quella semplicità che è tanto più semplice quanto più spiazzante. Emerge il ritratto di un'America multiculturale, che dopo l'11 settembre ha saputo unirsi e dividersi, dando vita a storie come questa, che lascia con il sorriso sulla bocca.
Spettacolare Shah Rukh Khan nel ruolo del protagonista (in India l'equivalente di Johnny Depp, ho scoperto). Ruolo non facile, nella gestualità, nella voce, ma me ne sono innamorata, ve ne innamorerete. Splendida anche Kajol  che lo affianca come Mandira. Un esempio di donna forte, protettiva, intraprendente, mamma e donna eccezionale. La loro storia d'amore mi ha conquistata.
Grande successo ai botteghini di mezzo mondo, grande risposta di pubblico e di critica ai Festival del Cinema di Roma e Berlino.
Tantissimi i dettagli che fanno di questa pellicola un prodotto cinematografico sui generis, a partire dalle musiche.
Mi è piaciuto, mi ha commosso, in questa domenica mattina di sole e di pace. Da guardare. 

V.



Titolo: Il mio nome è Khan
Titolo originale: My name is Khan
Regia: Karan Johar
Anno: 2010
Durata: 161 minuti
Paese: India
Genere: drammatico, romantico
Voto: 9
Lo consiglieresti?
A chi? A chi ama Bollywood e a chi no, a chi vuole ricordare l'11 settembre, o riscoprire la semplicità dei sentimenti senza sentimentalismi


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"Ehi cretino!" "Che dici a me?"
Una commedia degli anni '90 che svela le debolezze di belli e brutti

Se non sapete cosa fare in una delle tante sere della settimana, perché non provare con la cena dei cretini? Ci ha pensato un gruppo di amici parigini, ricchi, riusciti, che tra un affare e una partita a golf vanno alla ricerca di personaggi goffi e buffi invitandoli a passare insieme la serata con l'unico scopo di deriderli a loro completa insaputa e assegnare il premio per "il miglior cretino".
Inizia il film e il mercoledì designato è alle porte: l'affascinante e arrogante editore Pierre Brochant (Thierry Lhermitte), residente in uno splendido appartamento che dà sulla Tour Eiffel e sposato con la bellissima Christine (Alexandra Vandernoot), crede di aver trovato il soggetto perfetto. Si tratta di François Pignon (Jacques Villeret), contabile al Ministero delle finanze, calvo, sovrappeso, single, che, da quando la moglie l'ha lasciato, coltiva una passione profonda per i modellini di fiammiferi.
Il "cretino" François
Pierre sente già la vittoria in tasca, e lo invita a casa, prima della cena, con la scusa di voler pubblicare un libro sul suo singolare hobby. Ma uno swing troppo energico, il più sfortunato (o forse no?), gli causa un terribile "colpo della strega", costringendolo a riposo. François lo raggiunge nell'appartamento, e da allora è un rocambolesco susseguirsi di disastri: Christine, uscita poco prima per non assistere al gioco perfido del marito, chiama per dirgli "addio"; poi fanno la loro comparsa Just (sì, il francese di "Giusto"), vecchio amico cui Pierre ha sottratto la sposa e l'opera migliore, Marlene, amante di Pierre con tendenze ninfomani, e infine Lucien Cheval, collega di François al Ministero, sadico ispettore fiscale che sente nel lussuoso appartamento di Pierre "odore di frode", ma che lo aiuterà a trovare la moglie in fuga.
Una giostra, di battute, prese in giro, risate spezzate e loschi tramacci. Quella che avevo immaginato come una commediola attorno a una tavola imbandita si è rivelata invece un gioco d'ironia sottile e ben costruito, che sta perfettamente in piedi pur svolgendosi quasi tutto dentro le stesse quattro mura (il film si basa molto sui dialoghi, essendo ispirato a un'opera di teatro, anche se le inquadrature sempre sono panoramiche... l'effetto è davvero singolare).
Ma le curiosità non sono finite: la pellicola, scopro, è costruita su un espediente che gli addetti ai lavori chiamano "MacGuffin" (termine coniato da Alfred Hitchcock): si tratta di un elemento che dà il via agli eventi, ma che in realtà per lo spettatore non è così importante. In questo caso la famosa "cena dei cretini" che è la ragione stesse del film (il titolo, addirittura) è solo nominata, ma non la vediamo svolgersi, se non in pochi secondi.
Al di là dei vari personaggi, il protagonista è lui, François Pignon (pronunciato "pignòn"), ridicolo già nel nome, che il regista aveva in mente dagli anni Settanta, inserendolo, con vesti diverse, in molti altri film del passato. Inizialmente fa nascere in chi guarda un sentimento di pena, ma poi si rivela timoniere della trama non tanto astuto ma sicuramente geniale.
Mi sono trovata a ridere di gusto, guardandolo "spezzare" la schiena di Pierre, ordire scherzi telefonici, tentare di porre maldestramente rimedio alle gaffe cui dà origine senza tregua.
Un personaggio cinematografico "bello", che insegna molto, che spezza gli stereotipi alla 007, del "macho irraggiungibile". Perché alla fine a "vincere" non sono i "Pierre" ricchi e aristocratici in doppio petto, ma un contabile qualunque, con la cravatta più brutta che esiste e un'improbabile capigliatura. Che può rappresentare ognuno di noi, con le sue debolezze e le sue magre figure. E "vince" con un finale altruistico, che strappa un sospiro, tutt'altro che convenzionale.
Bello, bello, bello.
Se cercate un film godibile e poco impegnativo (è un po' vecchio, ma dalla sceneggiatura non sembra) lasciate stare i cinepanettoni o i film americani alla Scary movie: La cena dei cretini è qualcosa di diverso nel panorama della risata su grande schermo.
Insomma, quando vi inviteranno a cena la prossima volta, pensateci su...


V.

Una delle scene migliori... François al telefono!


François: "Signor Brochant , a volte ho l'impressione che lei mi consideri un cretino"

Titolo: La cena dei cretini
Titolo originale: Le dîner de cons
Regia: Francis Veber
Anno: 1998
Paese: Francia
Durata: 80 minuti
Genere: commedia
Voto: 8 e mezzo
Lo consiglieresti?
A chi? A chi è alla ricerca di personaggi comici nuovi; a chi ama Parigi e i parigini; a chi si sente un po' "sfigato" e cerca un riscatto; a chi crede nel potere delle persone semplici

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Tris di cuori


Mi sono concessa tre film, questo weekend.
Erano in un dvd arrivato da un'amica che di film se ne intende. Per questo non so se anche se lei abbia trovato lo stesso comune denominatore che ho notato io (le chiederò, ma credo di sì).
Il fil rouge (ovviamente) è l'amore, sì.
Tutte le storie parlano d'amore, ha detto qualcuno, e, quando ormai si è scritto e si è sceneggiato su qualsiasi tema, ancora rimangono pellicole incentrate sul sentimento più antico del mondo.
Come queste tre, che lo "sondano" ciascuna in modo originale e diverso.

Inganni del cuore, parcelle e balli proibiti

Amore e... finzione, denaro, seduzione

Sono partita con Il truffacuori.
Regia francese, di Pascal Chaumeil.(Parigi, il bacio omonimo... l'amore non è forse francese per antonomasia?).
Protagonisti Romain Duris, versione transalpina di Scamarcio, e la Vanessa Paradis consacrata da La ragazza sul ponte, da quel sorriso con fessura, e dalla coppia consolidata che forma, ormai da 13 anni, con il "pirata" Depp.
Duris è Alex Lippi, affascinante, mediterraneo, che come mestiere seduce e conquista ragazze impegnate ma "vittime" di amori infelici, senza mai "andare a letto con il bersaglio", solo per "aprire loro gli occhi" e convincerle a cercare l'amore, quello vero, altrove. Anche se con frasi a effetto, lacrime finte e su consiglio di amici o parenti.
Dopo tanti successi ma altrettanti debiti da saldare (la crisi economica colpisce anche il mondo dei rubacuori di professione), Alex e la sua squadra, composta dalla sorella e dal cognato, decidono di assumersi un caso "dollaroso" ma insolito per i loro standard: far separare la ricca, bellissima, snob e soprattutto innamorata ereditiera, Juliette Van Der Beck, dal promesso sposo.
Il famoso sorriso della Paradis
Commedia che si lascia guardare, non priva di luoghi comuni (lo spezzacuori cade alla fine sotto i dardi di Cupido), ma ben costruita, abbastanza curati nei dettagli e negli scenari (lo sfondo è quello del Principato di Monaco, località desiderabili, adesso che si comincia a pensare alle vacanze).
Piacevole anche l'idea del Casanova moderno, dell'adescatore per denaro, che rimanda a titoli come Attrazione fatale, Hitch, L'uomo perfetto e a tutti quegli imprenditori dell'amore un po' speculatori, un po' frantumatori di coppie e un po' business men tra l'umano e lo spregiudicato.
Molto divertente l'"omaggio" a Dirty dancing...
"Nella coppia ci sono tre categorie di donne: quelle che sono felici, quelle che sono infelici ma lo accettano, quelle che sono infelici ma non lo ammettono. Quest'ultima categoria è la base del mio lavoro" 
Titolo: Il truffacuori
Titolo originale: L'arnacoeur
Regia: Pascal Chaumeil
Anno: 2010
Paese: Francia
Durata: 105 minuti
Genere: commedia, romantico
Voto: 7 e mezzo
Lo consiglieresti?
A chi? A chi non sa cosa guardare in una "serata tranquilla", a chi è alla ricerca del principe azzurro (massì... ).

Tu sai dirmi cos'è l'amore?
Amore e... famiglia, omosessualità, debolezze

Poi è stato il turno di I ragazzi stanno bene, e dell'amore "diverso", "altro". Nic (Annette Bening) e Jules (Julianne Moore) sono una coppia lesbica di mezz'età. L'amore "altro", "diverso". Nic è una "donna medico" impegnata e intransigente, Jules è sempre rimasta a casa, per crescere i loro bambini. Infatti grazie a una banca del seme e a un "donatore" sconosciuto, entrambe hanno potuto conoscere la maternità e creare una famiglia: Nic è madre di Joni, diciottenne bionda e intelligente in procinto di partire per il college, e Jules di Laser, un ragazzo di quindici anni come tanti, con amici deprecabili, una bicicletta e il desiderio inconfessato di conoscere il padre biologico.
E arriva proprio da lui la richiesta alla "sorella" maggiorenne di mettersi in contatto con la società che si occupò della procedura, vent'anni prima, per rintracciare il genitore mai incontrato.
Le ricerche li portano da Paul, dongiovanni incallito, senza famiglia e senza progetti, a eccezione del ristorante biologico che gestisce nell'assolata Los Angeles.
Pur essendo animato dalle più buone intenzioni, l'uomo viene percepito fin sa subito come un elemento estraneo nel nucleo familiare, soprattutto dalle due madri. La presenza di Paul mette in evidenza le falle di quella famiglia non convenzionale, tenuta insieme con tanta pazienza e sacrificio: le attenzioni troppe apprensive di Nic per la figlia, e quelle invece sempre più deboli per la sua compagna; l'insoddisfazione di Jules, che per fare la "moglie" non si è realizzata nel lavoro, e si sente sotto il costante giudizio della inflessibile Nic.
Ho trovato una Julianne Moore molto invecchiata dai tempi di Hannibal, e Mark Ruffalo poco interessante; la coppia protagonista in sè a volte sembra non ben amalgamata, le scene di sesso forse inutili e il finale un po' prevedibile.
Nic e Jules
Ma le mie aspettative sono state deluse, positivamente intendo. Quello che credevo essere l'ennesimo racconto stereotipato e moralista sull'omosessualità si è rivelato invece una riflessione a tratti commuovente e piena di tenerezza. La Bening veste molto bene i panni dell'"uomo di casa", e i due ragazzi (la Mia Wakowska di Alice in wonderland e Josh Hutcherson) recitano in modo pulito e gradevole.
L'immagine che si ha quando arrivano i titoli di coda è davvero quella di una famiglia felice, non "perfetta" ma cementata, dove si cena con la televisione spenta, dove non si sono abbandonati i giochi da tavolo e si piange la partenza di qualcuno, con tutte le fatiche quotidiane, le esasperazioni, le noie, i turbamenti, anche sessuali, che ci possono essere e che vengono descritti con molta naturalezza.
Partendo dal presupposto che prendere argomenti così "chiacchierati" e non ricevere critiche è tutt'altro che facile, condivido molti "pollici versi" che ho trovato in rete, ma non ho potuto non apprezzare la linearità, la semplicità con cui il film è stato costruito per trattare di cose delicate come l'amore gay, l'inseminazione artificiale, la famiglia. Da qui, forse, i due Golden Globe e il premio ricevuto al Festival di Berlino.
Laser: "Voi due non dovreste lasciarvi" 
Nic: "E perché?"
Laser: "Siete troppo vecchie"

Titolo: I ragazzi stanno bene
Titolo originale: The kids are all right
Regia: Lisa Cholodenko
Anno: 2010
Paese: Stati Uniti
Durata: 104 minuti
Genere: commedia, romantico
Voto: 6 e mezzo
Lo consiglieresti?
A chi? A chi ha sentito dire che questo film "non è niente di che", a chi vuole guardare oltre i pregiudizi, o a chi dice sempre che la sua è una famiglia complicata (io praticamente tutti i giorni).

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Amore, voce del verbo "riscoprire" (ma niente Moccia)
Amore e... famiglia, riscoperta, femminilità

L'ultimo, facendo il giro del mondo, è stato un film, udite udite, italiano. E l'ho scoperto con sorpresa, quando nelle scene iniziali si sentono gli inservienti, cuoche e camerieri, di una grande casa parlare un dialetto marcatamente milanese. Guardo meglio il labbiale e mi accorgo che non è il doppiaggio, che gli attori sono proprio italiani.
Io sono l'amore è ambientato nella "Milano bene". La protagonista appare subito, e subito colpisce come un bicchiere di cristallo in un servizio da tutti i giorni: Emma, impersonata da Tilda Swinton, è la moglie russa di Tancredi, ricco industriale e capofamiglia della cerchia dei Recchi. A tenerli uniti non ci sono né amore né passione, solo l'affetto dei tre figli, Elisabetta, Gianluca, Edoardo, e il dovere morale derivante dal matrimonio.
Quello che ci dà il regista Luca Guadagnino è un perfetto ritratto di questa famiglia, del suo tenore di vita, dei legami, dei meccanismi patriarcali ed economici che regolano ogni gesto o parola.
Un ritratto freddo e distaccato, dallo quasi stile documentarista (ottima la fotografia), che traspare dai primi piani sugli oggetti, i mobili e i soprammobili, dai dialoghi controllati, dal momento d'apertura rappresentato dal compleanno del nonno, per il quale tutta la famiglia si riunisce e dal quale emergono gli interessi affaristici, la questione dell'eredità, il concetto di superiorità sociale, la convenienza dei rapporti tra uomini e donne.
Ma poi questi equilibri rigidi e insensibili agli affetti sembrano destinati a spezzarsi: la dolce Betta che nasconde una sessualità segreta, la crisi che colpisce l'azienda tessile familiare e l'arrivo di Antonio, giovane cuoco di bassa estrazione, amico di Edoardo, che con lui vuole avviare un ristorante, e che farà confluire nella casa sentimenti e pulsioni mai conosciuti... come recita la locandina, "tutto cambierà per sempre".
Merita di essere guardato solo per l'interpretazione attenta e professionale di Tilda Swinton, nei panni di Emma. L'attrice britannica, dopo i successi de Le cronache di Narnia, Il curioso caso di Benjamin ButtonMichael Clayton, che le ha valso un oscar per il ruolo di non protagonista, occupa ora la scena in modo elegante e silenzioso. Curatissima ed eterea  (premiati i costumi con una candidatura all'oscar) viene colta nei dettagli, un orecchino, il rossetto rosso, inquadrature preziose,  che si aggiungono alla raffinatezza con cui recita in italiano, senza alcun doppiaggio.
Il film mi ha ricordato la storia de Il profumo del mosto selvatico, dove una famiglia antica e tradizionalista deve convivere con le rivoluzioni portate dalla modernità.
Ma il contributo di Tilda porta con sè ispirazioni nuove, così come i colorati paesaggi di Sanremo, dove Edoardo e Antonio aprono il ristorante, e dove emozioni forti torneranno a toccare quella famiglia che sembrava congelata nelle consuetudini e nei convenzionalismi.
Saporito e stuzzicante quanto basta anche l'elemento culinario, concretizzato proprio da Antonio e dalle sue creazioni, motivo che già in tante pellicole si è mescolato all'amore in un misto di esotismo e seduzione ai fornelli (si pensi a Lezioni di cioccolato, Chocolat, Julie and Julia, o al meno passionale ma altrettanto gustoso Ratatouile).
Poco significativa Diane Fleri nel ruolo di bella ma insensibile fidanzata di Edoardo, impersonato invece da un Flavio Parenti tutto da scoprire (il suo nome è legato ad apparizioni in Camera café, Un medico in famiglia, Distretto di polizia e Manuale d'amore).
Nel complesso pollice in su. Pur non mancando di qualche sentimentalismo e, sì anche qui, di luoghi comuni (la donna matura che si innamora del ragazzo giovane, il padre scostante e autoritario, la figlia timida e lesbica), Io sono l'amore è un film che nella sua "italianità" non cade nello stereotipo italiano. I difetti ci sono, i dialoghi a volte peccano e il finale cade nell'angoscia. Ma nessuna commedia sconclusionata, nessun "cinepanettone", nessun "moccismo". E per fortuna.
V.

Titolo: Io sono l'amore
Regia: Luca Guadagnino
Anno: 2009
Paese: Italia
Durata: 120 minuti
Genere: romantico, drammatico
Voto: 7
Lo consiglieresti?
A chi? A chi è alla ricerca del buon cinema italiano, a chi quando vede la Swinton pensa solo a Le cronache di Narnia




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Un "Cigno nero" da Oscar. Ma a me non è piaciuto.

È curioso. La coincidenza ha voluto che mentre Natalie Portman riceveva l'Oscar come Miglior attrice protagonista per Il cigno nero, dall'altra parte del mondo io stessi guardando per la prima volta questa discussa pellicola.
Mi avevano prestato il  dvd solo poche ore prima, ma non ho resistito: un'attrice ormai consacrata, balletto, intrigo, Il lago dei cigni. Ce n'era davvero da perderci il sonno.
Perfetti i costumi e il trucco, meravigliose ed eteree le ballerine, con quella vena di competizione e "malvagità" che non smette mai di pulsare alla sbarra. Fedelissime le ambientazioni (siamo a New York), con le sale dai pavimenti in legno e specchi che ovunque creano illusioni e giochi di riflessi. Molto brava anche Mila Kunis, nel ruolo di Lilly, temuta "rivale" di Nina, la protagonista, in corsa come le altre per vestire almeno una volta i panni di Odette, per tentare di impersonare non solo la bella principessa (il cigno bianco), ma anche la nemica, Odile, figlia del mago malvagio (e spietata cigno nero), per entrare così nella storia della compagnia.
Ma... nel complesso il film non mi è per niente piaciuto.
×          5 alla protagonista Non tanto all'attrice (superba), ma alla donna che rappresenta. Fin da subito ci viene presentata una Natalie Portman "chiusa" in un personaggio che non la merita. Un'eterna bambina, di cui non si riesce a capire l'età (può avere 18 come 28 anni), rincorsa da una madre ansiosa, fastidiosamente presente ("La mia bambina..." le ripete ossessivamente), tormentata pure lei, che la veste, le taglia le unghie perché non si graffi, la vuole accompagnare a lezione. Scontati poi gli elementi che denotano questo tipo psicologico: il carillon per addormentarsi (e cosa suona? Il lago dei cigni! Come la suoneria del cellulare...), una cameretta con peluche e rosa nelle coperte, nei muri, in ogni dettaglio, vestiti color confetto che le conferiscono un'aria fin troppo infantile e una voce (qui il doppiaggio pecca molto) che le dà sempre un tono melenso e allo stesso tempo lamentoso. Mi aspettavo un personaggio che, pur nella metamorfosi, non presentasse caratteri così stereotipati. Sembra quasi che ci sia la convinzione che altrimenti il pubblico non capirebbe!
×         Il "cattivo"? 4 Deludente anche Vincent Cassel nel ruolo di maestro e allenatore di Nina. Dato il contesto, data l'aria di prestigio che chiaramente si respira nella scuola, mi sarei aspettata qualcosa di più di un seduttore così poco elegante che la chiama "frigida", che per farle comprendere il passaggio da "cigno bianco" a "cigno nero" le ruba baci tutt'altro che a stampo, interrogandola sulla sua vita sessuale e costringendola a dei "corpo a corpo" per farle riscoprire, che cosa? La sua femminilità? O solo per soddisfare qualche sua "voglia" come aveva fatto con qualche ballerina prima di lei?
×         L'esclusa. 2 Inutile e fuori posto una Winona Ryder nei panni della ex etoile che viene messa da parte dopo che Nina ottiene il ruolo di Odette. Trasandata e poco carina, compare in un paio di scene: in una sta disintegrando un camerino, in un'altra è completamente ubriaca, nell'ultima si trafigge il viso come una limetta per unghie. La Winona che conosciamo avrebbe meritato molto di più.
×         Masochismo al femminile. 2 Limette per unghie, terribili graffi sulla schiena, pelle e unghie strappate, schegge di vetro che trafiggono candidi tutù: un fastidio continuo! Potevano dirlo che era un misto horror/splatter, sarei stata preparata a coprirmi ogni due per tre gli occhi per non vedere ferite insopportabili ed esasperate con inquadrature minuziose. I sacrifici fisici, le sofferenze che i ballerini devono tollerare sono rese molto bene. Fin troppo.
×         Il sesso 6 Nella tormentata trasformazione di Nina da delicato cigno bianco a sensuale cigno nero non poteva mancare la componente sessuale. Ma perché portare tutto all'estrema esasperazione? La nota erotica si apprezza in molti momenti, nella trama fortemente psicologica è un elemento fondamentale dei pensieri e delle fantasie di Nina. Ma la tanto acclamata scena lesbo si conclude in un sogno di auto-erotismo, il maestro "tentatore" finisce su un tavolino a cavalcioni di un'altra ballerina, e tutto è vissuto da Nina con lo sguardo incredulo, spaventato e vittimistico della solita bambina. Tanto che alla fine non si capisce bene perché  riesca finalmente a lasciarsi andare, ad abbandonare la glaciale perfezione che da sempre la contraddistingue e a dare voce al diabolico e al lussurioso che c'è dentro di lei. "Perditi" le dice il maestro. Si ma anche io mi sono persa: il cigno bianco della sera prima dov'è finito? Tra un po' di sesso e droga diluita in bicchiere?
Un plauso comunque a Natalie, che nei dieci mesi antecedenti all'inizio delle riprese si è impegnata in allenamenti durissimi arrivando così a rappresentare l'80% delle scene danzate. Pur non essendo una ballerina.
Anche la tecnica di ripresa è sorprendente: la maggior parte degli shot è stata realizzata con la cinepresa a mano, come avviene in molti horror, solo che non in scene singole ma praticamente nell'intero film. Una novità assoluta. L'obiettivo? Cogliere immagini più vicine, surreali, intime. Cogliere l'onirico. Cogliere ogni respiro. In questo senso sì, Il cigno nero rappresenta qualcosa di unico.

Titolo: Il cigno nero
Titolo originale: Black Swan
Regia: Darren Aronofsky
Anno: 2011
Paese: Stati Uniti
Durata: 108 minuti
Genere: drammatico, thriller (bè, anche horror)
Giudizio: 6
Lo consiglieresti? Nì.
A chi? A chi ama i film ambientati nel mondo del balletto e quelli psicologici, a chi ha sempre amato Natalie Portman. Sconsigliato a chi si impressiona facilmente alla vista del sangue, a chi vuole un film per "passare la serata", e spera di rifarsi con qualche scena "hot".



Ben fatto il sito del film: http://microsites2.foxinternational.com/it/ilcignonero/ . Troverete curiosità e aneddoti sugli attori e le riprese. 
V.
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Usa on the Road: partenza (in) folle

Un viaggio che non promette nulla di buono. Un'amicizia nata sulla route 66

Di solito si dice: pensate alla coppia più stramba che ci sia e mettetela davanti a una macchina da presa.
Mi vengono in mente i film con i quali sono cresciuta, quelli della domenica sera, con Bud Spencer e Terence Hill, Starsky e Hutch, Stanlio e Ollio, per andare sul bianco e nero.
Da oggi penserò anche a Peter ed Ethan, protagonisti dell'esilarante pellicola diretta da Todd Phillips, uscita sui grandi schermi lo scorso 28 gennaio e intitolata Parto col folle.
Azzeccato (questa volta sì) il titolo italiano (un po' meno quello in inglese, Due date, letteralmente "data di scadenza"). Le rocambolesche vicissitudini sono quelle subìte dai due personaggi dopo il classico scambio di valigia all'aeroporto di Atlanta. L'uno affascinante e incravattato architetto, desideroso di ritornare a Los Angeles per la nascita del primogenito, -che sia questa la "data di scadenza" a cui si riferisce il titolo originale?- l'altro grassoccio e sfortunato aspirante attore che sogna le luci di Hollywood.
Peter, scoperto con "l'erba medicinale" di Ethan nella borsa, senza documenti e senza denaro, che sembrano essere stati sequestrati, è costretto ad accettare un passaggio da questo sconosciuto, e a condividere con lui una traversata on the road da un capo all'altro degli Stati Uniti. Sperando di arrivare in tempo per il primo vagito.
Un viaggio iniziato con il peggiore degli auspici (200 dollari spesi in marjuana, un carlino di nome Sonny e le ceneri del padre di Ethan dentro un barattolo del caffè), continuato sotto una pessima stella (l'arrivo al confine messicano e la fuga dalla polizia regalano inseguimenti e scene alla 007) ma giunto al traguardo, seppur con qualche ferita (morale e non solo), quando un legame (amicizia?) ha ormai segnato quei due uomini così diversi.
Comico, ben fatto, curato nei dialoghi e nella costruzione dei personaggi, che all'inizio suonano stereotipati (il Tom Cruise e lo "sfigato"), ma che poi rivelano una caratterizzazione approfondita. Un film che accontenta tutti, chi vuole ridere e chi sì, ma non troppo, chi sogna l'America, chi l'ha già visitata, e se la vuole rivedere in quelle riprese a tutto campo del Grand Canyon e delle "high way" a quattro corsie che mangiano il deserto.
Bravo Robert Downey Jr. (qui è Peter, ma è stato Tony Stark in Iron Man e The incredible Hulk), spettacolare Zach Galifianakis nei panni dell'"ultimo della classe", goffo e spassoso quanto basta per affezionarcisi e far pendere la bilancia della simpatia a suo favore. Deludente Jamie Fox nei panni del "cattivo" e improbabile seduttore della moglie di Peter, pure lei figura abbastanza marginale.
È la "coppia" quindi a sfondare, e a non annoiare mai in quelle 4 mila miglia di asfalto, sproloqui, sghignazzi, distributori automatici, colpi di pistola, fratture, confessioni imbarazzanti.
Ultima chicca? La colonna sonora, da Neil Young ai Pink Floid. Giù i finestrini, allora, e su il volume. 
Un coast to coast da gustare mangiando pop corn e con la fantasia di grandi viaggi nella testa.
V.

'Ciao tesoro'
'Dove sei?'
'Al Grand Canyon. Cinque minuti e arrivo'

Titolo: Parto col folle
Titolo originale: Due date
Regia: Todd Phillips
Anno: 2011
Paese: Stati Uniti
Durata: 100 minuti
Genere: commedia
Giudizio: 8
Lo consiglieresti? Sì.
A chi? A chi è alla ricerca di qualcosa di "leggero", a chi vuole riscoprire la comicità, a chi pensa già alle vacanze.


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Il re è nudo? E meno male

In un inizio '900 minacciato da Hitler, dalla sua conquista delle folle e da un ricordo della Grande Guerra ancora vivido, "Bertie" è il figlio del re.
Duca di York, secondogenito di Giorgio V, sovrano d'Inghilterra, "Bertie" è un principe.
Un uomo onesto, buono, padre affettuoso della futura Elisabetta II, ma fin da bambino segnato da una balbuzie cronica che gli impedisce di pronunciarsi al microfono in discorsi pubblici (è l'epoca della radio), e di ottenere pieno rispetto dal padre, dal più spigliato fratello maggiore, dalla sua gente.
Tom Hooper ci mostra il principe Alberto d'Inghilterra, futuro re Giorgio VI, nella sua maschera di uomo.
Un racconto sincero, immediato, un ritratto storico ma intimo, con quelle inquadrature a pieno viso, un sorprendente Colin Firth e un doppiaggio italiano che bene rendono tutta la sofferenza di chi non riesce a esprimersi, di chi ha una voce, ma non crede che sia degna di essere sentita. Pur sedendo sul trono. Che cosa si nasconde dietro all'immobilità fonica (ed emotiva) di Alberto? Quali dolori? Quali traumi gli impediscono di parlare?
Cercherà di scoprirlo Elizabeth, moglie dolce e presente, interpretata da una mirabile Helena Bonham Carter (Harry Potter e nella realtà compagna di Tim Burton), che si imbatte in un Geoffrey Rush (I pirati dei Caraibi) disincantato, eccentrico, logoterapeuta australiano di nome Lionel Logue.
Sarà lui che, contravvenendo a qualsiasi protocollo di corte (i due si chiameranno sempre per nome), tra esercizi di rilassamento, discorsi gridati dentro a un grammofono, parole in musica e bizzarri trucchi del mestiere, lo aiuterà non solo a riscoprirsi nei suoni delle sue corde vocali, ma anche a guardarsi nello specchio delle sue paure. Fino al discorso più importante, l'ultimo del film, il primo di una vita nuova, di una grande sfida, che "Bertie" dovrà affrontare con un coraggio che credeva di aver perduto.
"Il volto umano del potere" (La Repubblica), "Un re da Oscar" (Europa), "Lunga vita al re e al suo garbato precettore dell'eloquio" (mymovies.it).
Un film che a tratti commuove, a tratti strappa un sorriso, che si riguarda volentieri (io me lo sono goduto due volte di seguito).
Egregia la recitazione, eccellente il cast, molto curate le musiche e fedelissima la ricostruzione di ambienti e costumi (immancabile il Winston Churchill con il suo sigaro).
E quel tratto delicato che ci fa affezionare ai personaggi, alle parole troncate di Alberto, alla sua fragile forza d'animo e alla fiducia riscoperta, all'intelligenza e all'amore di Elizabeth, all'ironia e all'amicizia di Lionel.
Notevole. 12 candidature agli Oscar pienamente meritate.
V.
"Geoffrey Rush: 'Perchè dovrei ascoltarvi?'
Colin Firth: 'Perchè io ho una voce!'
Geoffrey Rush: 'Sì, è così...'"
Titolo: Il discorso del re
Titolo originale: The King's speech
Regia: Tom Hooper
Data di uscita: 2010
Paese: Regno Unito/Australia
Durata: 111 minuti
Genere: storico, drammatico (ma non troppo)
Giudizio: 8
Lo consiglieresti? Sì.
A chi? A chi ama i film storici ma raccontati con gusto, a chi pensava che Colin Firth fosse solo quello de Il diario di Bridget Jones, a chi, in fondo, crede che i limiti siano fatti per essere superati.
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Le vie sconosciute dell'amore

Le strade che l’amore può prendere sono molteplici ed infinite, ma soprattutto imprevedibili.
Questo è ciò che accade nel film Orgoglio e pregiudizio, tratto dall’omonimo libro di Jane Austen.
I due protagonisti sono Mrs Elizabeth Bennet, chiamata Lizzie, e Mr Darcy.
Entrambi sono personaggi forti, che non si lasciano condizionare.
Lei: orgogliosa, testarda, impulsiva, passionale, sincera.
Lui: affascinante, orgoglioso, ostinato, arrogante e pieno di pregiudizi.
Sullo sfondo, storie quotidiane di donne inglesi, obbligate a sposarsi in età prematura con uomini che nemmeno conoscono.
Storie di donne che devono contendersi la mano dell’uomo più ricco per poter avere un futuro senza rischi.
Ma non tutte le donne si lasciano influenzare e condizionare dalla società del tempo.
A differenza delle altre sue sorelle, Lizzie è una ragazza tenace e sa quello che vuole dalla vita: il vero Amore.

 “Solo il vero amore potrà condurmi al matrimonio, ragion per cui morirò zitella” (Elizabeth)
È il suo carattere così indipendente e determinato che farà innamorare perdutamente Mr. Darcy, un uomo ricco e di rango più alto. Egli si trova diviso tra l’amore passionale per Lizzie e i pregiudizi che ricadono sulla famiglia di lei.

Mr. Darcy: "Signorina Elizabeth, ho lottato invano, ma non c'è rimedio... Questi mesi trascorsi sono stati un tormento, sono venuto a Rosings con lo scopo di vedervi, dovevo vedervi, ho lottato contro la mia volontà, le aspettative della mia famiglia, l'inferiorità delle vostre origini, il mio rango e patrimonio, tutte cose che voglio dimenticare e chiedervi di mettere fine alla mia agonia..."
Lizzie: "Non capisco."
Mr. Darcy: "Vi amo con grande ardore... Vi prego, concedetemi la vostra mano."
Anche se per qualcuno potrà sembrare un film sdolcinato o da “donnette”, esso ritrae come l’amore possa essere così imprevedibile. Ritrae le sue sofferenze, le sue gioie, la sua passione, la sua rabbia, i suoi rimpianti e i suoi rimorsi.
Un famoso filosofo diceva: “Temere l’amore è temere la vita, e chi teme la vita è già morto per tre quarti”. (B. Russell)

A.


Titolo: Orgoglio e Pregiudizio
Titolo originale: Pride and Prejudice
Regia: Joe Wright
Data di uscita: 2005
Paese: Gran Bretagna
Durata: 154 min
Genere: drammatico-romantico
Giudizio: 7
Lo consigli?
A chi? A chi ha voglia di commuoversi un po’, a chi prende la vita con ironia (le battute sono abbastanza fedeli: Elizabeth è molto ironica nelle sue risposte).


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