domenica 26 dicembre 2010

I BOSCHI DELLA MEMORIA (E DELLA TOLLERANZA)

Le storie più interessanti (o forse quelle più curiose) arrivano a noi in maniera del tutto casuale. Non le cerchi, ti trovano e cogli in loro quella scintilla che ti fa venir voglia di condividerle.
L’altra sera ero seduta con un amico davanti a un bicchiere di spritz.
Lui, futuro architetto, mi racconta delle sue vacanze (non quelle natalizie, quelle già trascorse, di fine estate... sì era da un po' che non lo vedevo). Mi ricostruisce davanti agli occhi una Stoccolma fatta di palazzi eco-sostenibili, alci di peluche, compagni di università alle prese con l’inglese e incontri con ragazze russe amanti della vodka.
"E dovessi vedere i cimiteri" se ne esce a un certo punto.

Prima una toccatina scaramantica, poi uno sguardo perplesso: così reagisco alla storia in arrivo.
Ma era tutt'altro che una presa in giro. Era una storia, tutta per me, sulla tolleranza.
Nella mentalità svedese il cimitero non è luogo di lutto. Quell'atmosfera che si respira nei nostri campi santi e che ti fa andare via sempre un po’ scombussolato e con la testa bassa semplicemente non c'è.
Perché in Svezia il cimitero è pensato per consentire ai vivi di conservare con i propri cari un legame. Un "filo rosso" di ricordi e immagini evanescenti che si cerca di non spezzare anche dopo l'estremo pianto. 
Viene ricavato uno spazio nei luoghi più tranquilli e più belli vicino alla città. La metropolitana fa la spola a tutte le ore del giorno, e come guardiani solo pini, betulle e querce secolari.
A Stoccolma uno dei cimiteri più famosi (inaugurato nel 1940, ora non più in uso, e iscritto nell’elenco dei Patrimoni Unesco per l’umanità) si chiama Skogskyrkogården, “cimitero del bosco”. È qui, in questo luogo ricco di fascino e di bellezza, che riposa Greta Garbo dal 1999.
È un Central Park in miniatura, un giardino all’inglese dall’erba perfetta: le donne più anziane cambiano i fiori, spolverano via i segni del tempo che è trascorso, poi siedono sulle panchine e lavorano a maglia. I vecchi si trascinano con passo lento, rimangono in silenzio qualche minuto a occhi chiusi, poi leggono il giornale. Bambini biondissimi scorrazzano per i viali, le maestre li controllano da lontano. Forse sono in gita, forse si godono solo il sole, che con l’inverno scompare presto.
Le voci degli uccelli, qualche cane che annusa l'aria. E lì, in mezzo a tutta quella vita che trascorre con surreale tranquillità, le lapidi. Pietre tombali di marmo e granito per nulla diverse da quelle "tradizionali" ma senza nessun fronzolo, un ricordo modesto e silenzioso di chi non c’è più.
E la tolleranza?
La tolleranza è racchiusa nelle croci cristiane che stanno dritte verso il cielo (solo l,6% della popolazione è di fede cattolica).
La tolleranza brilla nei candelabri ebraici a sette bracci ovunque sparsi.
La tolleranza si riflette sulle acque dei laghetti che costellano il parco e dove i buddisti possono accendere candele e spargere fiori per indicare a parenti o amici scomparsi la strada verso la reincarnazione.
Strano a pensarci in un Paese sì, noto per la sua visione democratica, ma per quasi il 73% protestante.
Religioni "diverse", diverse geograficamente, diverse nei fondamenti trovano la semplicità, trovano l'umiltà di condividere lo spazio. Lo spazio del distacco. Lo spazio del dolore.
Che cos'è la vita se non condivisione?
Che cos'è il dolore della morte se non necessità di una condivisione ancora più intima?
Lì dove spesso scegliamo di isolarci con la nostra sofferenza, credendo che forse solo la "nostra" religione possa rendere degno omaggio a chi amavamo, può esserci vicinanza, può esserci coesistenza del "diverso".
Un piccolo esempio di umanità. Di rapporto umano sincero, naturale.
Come forse dovrebbe essere il Natale?
E intanto bandierina sul mappamondo sopra "Stockholm", inserita a diritto tra le mete di un prossimo viaggio.
Aspettando il prossimo viaggio,
aspettando la prossima storia,
a chi ci crede,
a chi invece no,
buon Natale.
V.

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